Storia antica e moderna

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    10 settembre 1977: ultima pena di morte in Francia


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    Il 10 settembre di 47 anni fa veniva giustiziato a Marsiglia l'ultimo condannato a morte in Francia: il tunisino Hamida Djandoubi.
    Venne ucciso mediante ghigliottina per l'accusa d'omicidio dell'ex amante Elisabeth Bousquet.

    Hamida tentò di costringere la sua amante, Elisabeth Bousquet, una ragazza di ventuno anni che aveva conosciuto durante il ricovero in ospedale, a prostituirsi. Questa lo denunciò. Djandoubi venne arrestato, passò alcuni mesi in prigione ed in seguito giurò di vendicarsi.
    Nel luglio del 1974 Djandoubi rapì la Bousquet, la portò in aperta campagna, la violentò e la strangolò. Arrestato nel giro di pochi mesi, Djandoubi venne accusato di sevizie e violenze aggravate. La condanna a morte fu inflitta dalla corte d'assise di Aix-en-Provence il 25 febbraio 1977.
    La condanna fu eseguita il 10 settembre 1977, alle ore 4 e 40, nel cortile della prigione di Marsiglia.
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    Gli zoo umani - Quando gli europei pagavano per vedere i non-europei in gabbia


    gabbia



    Di Antonella Randazzo

    Il primo contatto degli europei con persone appartenenti ad altre culture fu improntato alla superiorità ontologica sostenuta dalle teorie "scientifiche" dell'epoca. Era opportuno che nel periodo coloniale gli europei percepissero i non europei come sub-umani, da osservare a distanza di sicurezza.
    Gli scienziati europei avevano assunto verso gli altri gruppi etnici, in particolare quelli africani, l'atteggiamento di chi vuol trovare l'elemento strano o diversità biologiche tali da indurre a relegarli all'interno di una categoria assai lontana dalla "razza" bianca e, se possibile, anche dalla stessa umanità, intesa come protagonista della Storia e della civiltà.

    Già alla fine del Settecento si diffuse la falsa notizia dell'esistenza di gruppi africani dotati di un organismo strano, che li rendeva diversi e non assimilabili agli altri gruppi umani. Si trattava del caso degli Ottentotti, considerati la razza più vicina alle scimmie. La donna Ottentotta fu considerata anatomicamente anomala perché dotata di una massa adiposa che dava alle natiche una forma eccessiva; inoltre si pensava che avesse le labbra dei genitali più sviluppate. Gli scienziati credettero addirittura di aver trovato una razza estranea allo stesso genere umano, e studiarono gli Ottentotti per suffragare le loro tante ipotesi razzistiche e discriminatorie. I particolari anatomici della donna Ottentotta furono direttamente collegati alla sessualità, che nel suo caso fu considerata, com'era negli stereotipi della donna africana, viscerale e indomita. L'Ottentotto divenne nell'immaginario europeo il selvaggio allo stato puro, assai vicino alla brutalità dell'animale.
    Per tutto il Settecento e fino ai primi decenni dell'Ottocento, gli Ottentotti suscitarono un'attenzione morbosa da parte degli scienziati, ma anche da parte della gente comune. Ad esempio, Sarah Baartmann, soprannominata la "venere Ottentotta", dalla Colonia del Capo fu portata a Londra ed esibita al pubblico dietro pagamento. Morirà nel 1815 e sarà messa sotto formaldeide per essere ancora esibita fino al 1982.

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    Gli scienziati dell'epoca vedevano nelle cosiddette "anomalie delle razze inferiori", una prova che i "selvaggi" non potessero essere assimilabili ai bianchi. Erano convinti che l'Antropologia e l'Etnologia avessero un ruolo fondamentale nel fissare in maniera precisa e chiara la gerarchia fra le razze.
    I parametri europei, applicati come assoluti, permettevano di valutare e di provare in maniera inappellabile che il non europeo, in particolare il nero africano, era brutale come un animale, e possedeva istinti avidi e incontrollati che lo portavano a vivere una sessualità bestiale e promiscua. L'africano veniva visto anche come antropofago, in linea con l'immaginario europeo, che vedeva il selvaggio come colui che infrange tutti i tabù della civiltà.
    L'osservazione era il criterio di studio divenuto prevalente a partire dagli ultimi decenni dell'Ottocento, quando si affermarono le teorie positivistiche e darwiniane. L'imperativo dello studioso era di osservare per esperire direttamente l'oggetto di studio e catalogarlo nelle sue caratteristiche empiricamente inconfutabili. L'osservazione fu intesa come un approccio privilegiato che tutti gli europei, non soltanto gli studiosi, potevano sperimentare attraverso l'istituzione di veri e propri zoo umani (1).

    Gli zoo umani nacquero in Germania intorno al 1874, ad opera di Karl Hagenbeck, un mercante di animali selvatici che scoprì l'affare lucroso di esporre come animali anche gli umani appartenenti alle razze più lontane da quella europea.
    Il primo contatto con il nero africano avvenne quindi dietro le sbarre di una gabbia, a significare la natura più animale che umana dei soggetti che si offrivano all'osservazione. Il fenomeno dello zoo umano si diffuse ben presto in molte città europee, comprese Londra, Berlino e Milano. L'inferiorità e la natura non pienamente umana del nero erano ormai un assioma, grazie anche alle teorie scientifiche più importanti dell'epoca. Il darwinismo sociale o antropologico aveva determinato una rigida gerarchia delle società e delle razze. Spencer, uno dei più importanti darwinisti inglesi, applicò il concetto di evoluzione alla realtà sociale dell'uomo facendo derivare categorie precise di evoluzione del comportamento umano all'interno del suo proprio gruppo sociale. La società fu intesa da Spencer come un unico organismo compatto, che si evolveva anche attraverso lo scontro con altri organismi sociali; nello scontro vinceva sempre il più forte, che era da ritenere come il più evoluto. I perdenti, ossia le razze inferiori, erano da considerarsi tali in quanto dotate di un corredo biologico limitato, dovuto anche a scarse condizioni ambientali. Da questi presupposti nacque la “psicologia del primitivo”, dominata da elementi irrazionali (magia, stregoneria, spiritismo) e da capacità cognitive poco articolate, incapaci a produrre idee astratte. All'interno di questa visione, la "razza evoluta", cioè l'europeo, doveva necessariamente prevalere in quanto ciò veniva a coincidere con il progresso delle culture che sottometteva. A tutto questo va aggiunta l'importanza che il darwinismo dava all'ereditarietà dei caratteri all'interno di un gruppo, e la necessità di studiare la realtà umana attraverso elementi esterni come la forma, la misura e il peso.

    Oggi non c'è memoria del primo approccio osservativo che abbiamo avuto con i neri, eppure fino agli anni '30 dello scorso secolo sono esistiti gli zoo umani, che mostravano anche interi gruppi sociali africani e asiatici. Per l'europeo era accettabile e legittimo quel rapporto di estrema distanza ontologica. Il nero africano veniva considerato alla stessa stregua di un selvaggio, e poteva essere percepito come un mostro quando nello “spettacolo” veniva descritto come cannibale o come avente forze fisiche abnormi.

    Lo straniero appariva totalmente “altro”, e acquisiva tutte quelle caratteristiche considerate completamente estranee alla civiltà: egli era primitivo e come tale dotato di caratteristiche mostruose, nel corpo, nella sessualità e nel comportamento. Vederlo dentro una gabbia rafforzava l'idea di animalità e di inconciliabilità con il contesto civile degli europei.
    Dalla metà dell'Ottocento fino agli anni '30 del Novecento, gli zoo umani si diffusero in tutta Europa, venendo a costituire una sorta di rappresentazione del razzismo propagandato dalle teorie scientifiche dell'epoca.

    La logica insita negli zoo umani era la medesima dello spettacolo che mostrava l'insolito: il nano, la donna barbuta o il gigante. Agli zoo umani però si aggiungevano le caratteristiche dello spettacolo di bestie selvatiche, e i soggetti umani venivano mostrati chiusi nelle gabbie o nei recinti per dare l'impressione che si avesse a che fare con animali pericolosi e non con esseri umani strani o deformati. Tale distanza ontologica era la prova più lampante della funzione razzistica degli zoo umani. Essi, infatti, dovevano mettere in scena vere e proprie rappresentazioni dell'inferiorità di alcune razze rispetto a quella europea. L'impressione che si doveva avere alla vista dei soggetti africani era che essi fossero più vicini agli animali che agli esseri umani, e questa impressione si induceva non soltanto dalle caratteristiche somatiche o dalla seminudità dei soggetti mostrati ma, soprattutto, dal fatto che venivano presentati come portatori di comportamenti animaleschi: alcuni come antropofagi, altri come avidi di sesso e altri ancora come dotati di aggressività o forza selvaggia. Si trattava di messe in scena, in quanto gli stessi soggetti talvolta erano pagati per recitare la loro parte, ma il pubblico non lo sapeva.
    Lo sguardo popolare coglieva in maniera immediata un rapporto di netta superiorità fra la sua razza e quella dell'uomo nella gabbia e, quindi, gli spettatori non si rammaricavano che l'altro fosse rinchiuso o legato. La percezione dell'altro coincideva con i fatti stessi: “se sta in gabbia deve essere certamente un selvaggio”, e si ecludeva la possibilità che le cose potessero essere diverse.

    Gli zoo umani di solito erano organizzati da compagnie itineranti, che giravano per le grandi città come Amburgo, Anversa, Barcellona, Londra, Berlino o Milano. Si trattò di spettacoli di massa. A Glasgow, nel 1888, i visitatori furono 5,7 milioni, mentre a Parigi, nell'Esposizione Universale del 1889, sarebbero accorse oltre 30 milioni di persone.
    Nel 1877 Geoffroy de Saint-Hilaire, direttore del Giardino zoologico di Parigi, decise di mettere dentro una gabbia nubiani ed esquimesi, ottenendo un successo di pubblico assolutamente al di sopra delle previsioni. I parigini si erano riversati in massa per vedere lo spettacolo e quell'anno circa un milione di persone visitarono il giardino pagando un biglietto.
    Tra il 1877 e il 1912 si ebbero a Parigi altre iniziative del genere, ad esempio, nel Jardin zoologique d'acclimatation, furono presentate circa trenta "esposizioni etnologiche" che suscitarono un grande successo di pubblico. Successivamente fu ideato uno spettacolo con un vero e proprio "village nègre" con 400 comparse di colore come attrazione principale. Lo spettacolo fece il giro delle maggiori città europee riscuotendo un grande successo.
    Gli spettacoli potenziarono l'incontro con l'altro come con un diverso che non essendo acculturato non poteva vantare l'appartenenza piena alla specie umana.
    L'etnocentrismo europeo, portato all'estremo nel periodo coloniale, mostrava agli europei l'indigeno coloniale così come doveva essere percepito: dentro una gabbia, diverso e privo di caratteristiche veramente umane. In tal modo, giustificare ogni nefandezza del colonialismo sarebbe risultato più semplice. I neri venivano descritti come animaleschi, dagli istinti primordiali e voraci. Ma anche le altre “razze” non dovevano apparire propriamente umane, facendo intendere che la “civiltà” raggiunta dagli europei era unica, sovrana e impareggiabile. Si trattava anche di un modo per preludere alla “globalizzazione” della cultura, ovvero all’imposizione di un’unica cultura, quella occidentale, considerata talmente superiore da dover distruggere tutte le altre.

    Gli zoo umani entusiasmavano anche le società di Antropologia, che studiarono da vicino gli indigeni degli zoo e ne certificavano l''autenticità'. Gli studiosi, dopo le loro misurazioni e osservazioni, pubblicavano articoli su importanti riviste di Etnografia e Antropologia.
    Le teorizzazioni scientifiche del periodo si prodigavano a dimostrare l'esistenza di razze inferiori e di razze superiori, e a sostenere che le razze inferiori, a causa del loro stato selvaggio, dovessero essere dominate affinché non divenissero un pericolo per l'umanità intera.
    Il razzismo popolare si diffondeva e si rafforzava con le argomentazioni “scientifiche”. In queste argomentazioni il nero veniva raccontato come appartenente alla razza posta sul gradino più basso della gerarchia mentre la razza bianca possedeva la superiorità assoluta in tutte le caratteristiche.
    Per provare la fondatezza di queste teorizzazioni venivano utilizzati metodi come la craniometria (misurazione del cranio) e la frenologia . (2)

    Gli zoo umani suffragavano la teoria della gerarchizzazione delle razze mostrando il nero, appartenente alla scala più bassa della gerarchia, come un soggetto con tare e costumi ancora disumani, troppo lontani dalla civiltà europea. Gli spettacoli degli zoo richiedevano anche una certa cura per i particolari: abbigliamento da selvaggio e lotte sanguinarie fasulle.
    Dal 1890 fino alla Prima guerra mondiale l'attrattiva più acclamata era quella in cui il nero appariva particolarmente violento e selvaggio. Gli organizzatori degli spettacoli si prodigarono a dare agli indigeni l'apparenza di soggetti degradati, crudeli, assetati di sangue e molto distanti dalla civiltà europea. Dovevano apparire come razze inferiori ritardate rispetto all'europeo, non assimilabili alla civiltà europea se non attraverso la colonizzazione.
    Il pubblico recepiva l'immagine del selvaggio abituato a vivere nello sporco e non si indignava affatto nel vederlo in gabbia, e nemmeno per le condizioni igieniche in cui era tenuto o per il modo in cui veniva trattato. Sono davvero rare le reazioni d'indignazione, e soltanto da parte di qualche giornalista o politico. Gli altri si adattavano bene alla situazione proposta, e alcuni ne prendevano parte lanciando cibo verso le gabbie oppure ridendo degli spettacoli, e persino quando un africano tremava per il freddo o soffriva per malattia.

    Anche in Italia il fenomeno degli zoo umani ebbe notevole successo. La presenza di missionari e di esploratori italiani in Africa era significativa già a partire della metà dell'Ottocento. Gli stessi missionari cattolici si fecero promotori di iniziative propagandistiche per accrescere l'attenzione degli europei sull'Africa, portando in Italia gruppi di indigeni che mostrarono al pubblico in diverse occasioni, a sostegno delle importanti prospettive di evangelizzazione offerte dal continente africano. Ricordiamo, ad esempio, l'esposizione degli Assabesi a Torino nel 1884, di 60 Abissini a Palermo nel 1892, e di un gruppo di Sudanesi a Torino nel 1902.
    Nel periodo fascista si alimentò ancora di più il gusto verso l'esotico come elemento curioso da osservare e da valutare dall'alto della “superiore cultura” occidentale. Numerose furono le Esposizioni nazionali di spettacoli 'etnici' con spettacolarizzazioni, su iniziativa del governo fascista, che intendeva celebrare la grandezza della conquista coloniale in Libia e poi in Etiopia.
    Mussolini aveva promosso un filone 'scientifico' teso a divulgare idee e teorie razziste per affermare e salvaguardare la superiorità degli italiani sugli indigeni coloniali.
    Scriveva Lidio Cipriani negli anni '30:

    "Per quanto intelligenti più di ogni altro Africano a pelle nera, le possibilità psichiche della grande massa dei nostri sudditi dell'Africa non sono né saranno mai elevate o tali da dare originalità di pensiero; così, una volta resi fiduciosi del nostro potere e ben trattati, essi non desidereranno di meglio che restarci sottoposti e magari affiancarci in qualsiasi nostra impresa coloniale nell'avvenire, eventualmente - ed anzi con tanto maggiore entusiasmo! - fuori i confini dell'Etiopia. Ve li induce l'innato senso di fedeltà verso chi stimano e lo spirito bellico ineguagliato da ogni altro Africano." (3)

    Cipriani era considerato un importante antropologo (era anche direttore del Museo Nazionale di Antropologia e di Etnologia di Firenze) e firmerà il “Manifesto della Razza”, che ispirerà le leggi razziali approvate in Italia nel 1938.
    Secondo Cipriani era evidente e indiscutibile la suddivisione degli esseri umani in razze così come indiscutibile era il principio che vedeva inestricabilmente legate le caratteristiche fisiche e quelle comportamentali e mentali. Cipriani compie interminabili misurazioni e classificazioni, credendo di individuare la presunta essenza delle razze attraverso il somatico. Egli scrisse:

    "Le razze differiscono tra loro in svariati modi, all'infuori di quanto è noto a tutti circa il colore della pelle, la natura dei capelli, la forma del naso, della bocca, della faccia e dell'intera testa, il volume e le dimensioni, assolute e proporziali, delle singole parti del corpo. Certamente, funzioni quali le circolatorie, le digestive, le respiratorie, le sessuali, le secretive ed altre, offrono non poco di diverso fra razza e razza; e così pure la successione dei periodi di accrescimento, la distribuzione dei gruppi sanguigni, l'acuità sensoriale, l'equilibrio ormonico, quello nervoso, i tempi e le modalità delle reazioni nervose, la forza renale, la fecondità e la frequenza dei sessi, il modo di reagire alle influenze ambientali e alle malattie, sì che può benissimo fondarsi una fisiologia e una patologia comparata delle razze. In particolare variano e talora notevolmente, le doti psichiche. (...) Occorre convincersi che senza una oculata difesa dall'incrocio colle razze africane, si rischia di cambiare in peggio le nostre qualità ereditarie e distruggere la ragione prima dei privilegi da noi goduti finora. All'opposto, per tutte le popolazioni cosiddette primitive - intendendo, in base a vieti preconcetti darwiniani, genti all'inizio ben poco è ormai da sperare in quanto a vero progresso; un solco profondo e insuperabile le divide dalla razza bianca e impedisce loro di acquistare le attitudini creative di questa." (4)

    L'individuo veniva visto attraverso il gruppo di appartenenza, svelato dalle misure e dall'estetica del suo corpo, e la sua cultura veniva considerata statica e chiusa.
    Il muro tra il bianco e il nero, tra il civilizzato e il primitivo sarà propagandato e scientificamente giustificato allo scopo di imporre il rapporto imperialistico dell'europeo sulle altre popolazioni. La cosiddetta "missione civilizzatrice" sancì il mito della superiorità del bianco e del suo dovere di portare la civiltà laddove si riteneva non ci fosse. L'indigeno sottomesso diventò il totalmente altro che si faceva carico delle proiezioni archetipiche dell'inconscio collettivo della civiltà europea. Il nero evocava l'inaccettabile uscita dai tabù morali e, come un animale che non frena gli istinti, doveva essere trattato con durezza e sottomesso.
    Alle argomentazioni scientifiche si aggiungevano quelle religiose, si attribuiva il destino di sottomissione dei neri alla loro discendenza da Cam che fu maledetto da Noè e condannato, lui e i suoi discendenti, ad essere sottomesso e servo.
    L'idea era stata sostenuta da George Best, che nel 1578 aveva scritto una relazione per affermare che il colore nero della pelle derivava dalla maledizione divina. Nella relazione si legge:

    "(...) Contravvenendo queste buone istruzioni e esortazioni il suo malvagio figlio Cam disobbedì, e nella persuasione che il primo bambino nato dopo il diluvio, per diritto e legge di natura, avrebbe ereditato e posseduto tutti i domini sulla terra si accompagnò con la sua donna quando ancora erano nell'arca, e con ciò proditoriamente mise le premesse per diseredare la discendenza dei suoi due altri fratelli. Per questo malvagio e detestabile fatto, esempio di disprezzo di Dio onnipotente e di disobbedienza ai genitori, Dio volle che nascesse un figlio, il cui nome fu Cush, e che non solo lui, ma tutta la sua posterità dopo di lui fosse nera e disgustosa, perché potesse rimanere spettacolo di disobbedienza per tutto il mondo. E da questo Cush nero e maledetto derivano tutti quei mori neri che si trovano in Africa. (...) Si vede pertanto che la causa della nerezza degli Etiopi è la maledizione e l'affezione naturale del sangue, e non l'eccessiva temperatura del clima. (...) Il colore nero degli africani non è perciò un argomento valido per denigrare il clima della zona equatoriale. Possiamo dunque essere ben certi che sotto la linea equinoziale è il luogo più piacevole e dilettevole che vi sia al mondo". (5)

    Diverse religioni cristiane hanno associato il popolo nero con il popolo maledetto e formulato una vera e propria dottrina. Ad esempio, la Chiesa dei Mormoni, religione cristiana nata all'inizio dell'Ottocento negli Usa, escluse i neri dal sacerdozio fino agli anni '80 del secolo scorso, proprio per questa presunta maledizione.
    Di certo fu molto efficace coinvolgere anche le dottrine religiose in questo processo che avrebbe portato l'europeo ad avere la licenza di compiere ogni ingiustizia e crudeltà a danno del nero.
    Il razzismo coloniale fu indubbiamente un razzismo senza scrupoli, con finalità di dominio e di sfruttamento, e fece leva su stereotipi atavici generati da paure e dalla non conoscenza dell'altro.
    Il fenomeno degli zoo umani va sicuramente collegato al periodo in cui si affermarono i miti positivisti e scientisti del progresso e della superiorità della civiltà occidentale su tutte le altre, e nasceva anche l'imprenditoria dello spettacolo e dell'intrattenimento, che sempre più importanza avrebbe avuto col passare del tempo.

    Dopo la Prima guerra mondiale, periodo in cui ormai il potere europeo sulle colonie si era consolidato, emergeva anche un'altra immagine del "selvaggio", quella di un soggetto docile, sottomesso al bianco, un po' sciocco ma buono; è l'immagine dell'indigeno che è stato “civilizzato” e non deve fare più paura ma deve essere utilizzato come servo e come lavoratore. Ad esempio, la nuova percezione dell'indigeno è presente nell'Esposizione coloniale internazionale di Vincennes del 1931 che, estesa su un terreno di centinaia di ettari, rappresentò l'evoluzione dello zoo umano che ora appariva come un luogo in cui si svolgeva la missione civilizzatrice degli europei cristiani che espletavano così il loro paternalistico dovere di acculturazione. L'indigeno non era più chiuso in gabbia, ma posto all'interno di un determinato ambiente. Egli rimaneva comunque un essere inferiore, ma c'era l'idea che avesse acquisito sembianze più "umane" grazie agli europei che lo avevano vestito, educato, e gli avevano permesso di indossare una divisa e di combattere per loro. Era accaduto che i battaglioni coloniali avevano ricoperto un ruolo importante in alcune battaglie durante la Prima guerra mondiale e diversi giornali li avevano elogiati incrinando quell'immagine di pura animalità che aveva dominato negli anni precedenti.

    Nel 1931 l'esposizione parigina presenterà l'indigeno coloniale vestito e preparato a lavorare o a combattere. Per l'Europa sono anni di crisi in cui le contraddizioni fra i valori della Società delle Nazioni e le crudeltà delle colonie emergono fino alla terribile guerra e ai successivi processi di decolonizzazione, epoca in cui gli zoo umani appaiono ormai improponibili e vengono rimossi dalla coscienza collettiva.
    Lo studio degli zoo umani costituisce a tutt'oggi un fenomeno culturale di grande rilevanza nella conoscenza delle radici del nostro rapporto con l'altro, con lo straniero, nella dinamica razzista del periodo coloniale e nelle successive rimozioni o modificazioni.

    Nell'agosto del 2002 in Belgio fu allestita l'esposizione (6) di un gruppo di pigmei in un parco che ricreava l'ambiente della foresta pluviale, habitat dei pigmei di etnia Baka. I pigmei furono incoraggiati ad una vera e propria esibizione etnica di canti e balli. L'iniziativa dell'esibizione era partita dall'associazione Oasis Nature e da autorità cittadine di Yvoir con la motivazione di raccogliere fondi per migliorare la condizione dei pigmei e per poter costruire nel Camerun 17 punti di raccolta dell'acqua, 4 infermerie e 4 scuole.
    Furono sollevate molte polemiche e proteste da associazioni per i diritti umani come l'Mnm (Mouvement des noveaux migrants).
    Si rispose alla polemiche e alle accuse di razzismo sostenendo che l'iniziativa era di natura umanitaria, ma non si è spiegato perché non si fosse organizzato qualcos'altro, ad esempio un convegno o una conferenza (a cui si sarebbe data anche la parola ai diretti interessati), piuttosto che uno spettacolo circense simile a quelli degli zoo umani.
    Alcuni autorevoli esponenti di associazioni umanitarie e alcuni autori (7) citano questo caso per affermare che le pratiche razziste non appartengono soltanto al passato e che sarebbe un errore pensare che nel presente non ci possano essere rigurgiti del vecchio eurocentrismo o sensi di superiorità e comportamenti di sopraffazione culturale. Dall'esempio dei pigmei del Camerun, ci chiediamo perché c'è ancora la tendenza ad esporre esseri umani nella veste di soggetti primitivi da osservare in un ambiente artefatto che possa creare un'attrattiva (nel caso dei pigmei c'era anche il fattore “specie in estinzione”).
    Forse non si è ancora compreso che non esiste nessun diritto delle razze superiori (8) anche se per diversi secoli le autorità europee se ne sono valse per depredare, uccidere e sottomettere.
    Per molto tempo il rapporto con “l'altro” è stato improntato al rifiuto, condannandolo alla miseria e al disprezzo. Miseria e disprezzo che ancora oggi in molti casi vengono indirizzati ai discendenti delle vittime coloniali: gli immigrati.

    Articolo correlato:
    “L’ossessione genetica. Lo sterminio dei popoli non bianchi”
    http://antonellarandazzo.blogspot.com/2007...rminio-dei.html

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    NOTE


    1) Vedi Nicolas Bancel, Pascal Blanchard e Sandrine Lemaire, "Gli zoo umani della Repubblica coloniale", in Le monde, Settembre 2000.
    2) La frenologia era nata ad opera del medico tedesco Franz Joseph Gall (1758-1828) che sosteneva la possibilità di conoscere la psicologia delle persone esaminando la forma del cranio. I frenologi toccavano con le dita o i palmi delle mani la testa per tastare possibili depressioni o elevazioni nella forma del cranio. Si valevano anche del calibro o del nastro millimetrato. Da questa 'lettura' del cranio derivavano giudizi sulla personalità o le attitudini dell'individuo.
    3) Cipriani Lidio, "Gli etiopici secondo il razzismo", I, 5: 34
    http://www.golemindispensabile.it/Puntata9...=&mpp=&ed=&as=1
    4) Cipriani Lidio, "Razzismo coloniale", in “La Difesa della Razza”, n.2, 20 agosto 1938.
    5) Best George, "A True Discourse of three Voyages of Discoverie", in Gliozzi G., "Le teorie della razza nell'età moderna", Loescher, Torino 1986, p. 129.
    6) "Benvenuti nello 'zoo umano'", da "Il manifesto" del 22 Agosto 2002.
    7) Berhuse S., "L’affaire des Baka du Cameroun en Belgique", in http://belgium.indymedia.org/news/2002/09/31136.php,
    8) Vedi Maurice T. Maschino, "Da Jules Ferry a Massu, per il diritto di dominio delle “razze superiori”", "Le Monde Diplomatique", Luglio 2002.
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    31 agosto 1888: la prima vittima di Jack lo squartatore



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    fotografia mortuaria di Mary Ann 'Polly' Nichols



    Mary Ann Nichols, prostituta di 43 anni, fu la prima vittima accertata di Jack lo squartatore. Il suo corpo viene ritrovato il 31 agosto 1888, alle 4 del mattino, in Buck's Row, di fronte uno dei tanti mattatoi del quartiere. La vittima presentava la gola tagliata fin quasi alla decapitazione (il taglio intaccava le vertebre del collo) e tagli sul ventre dai quali fuoriusciva l'intestino. Gli organi genitali presentavano gravissime ferite da taglio, probabilmente inferte di punta. L'autopsia, studiando il taglio alla gola, rivelò che l'assassino era mancino, fatto che poi verrà smentito da tutti i criminologi che hanno studiato il caso. I giornali dell'epoca, che riportavano ogni giorno articoli relativi a donne accoltellate, bruciate vive, sfregiate e mutilate, diedero enorme rilievo al caso definendolo "strano" rispetto ad uno dei tanti che costellarono l'"Autunno di terrore".

    L'omicidio
    Intorno alle 3.40 di notte del 31 agosto 1888, Charles Cross e Robert Paul scoprirono il cadavere della donna. Erano incerti sulla sua morte effettiva, in quanto il corpo era ancora caldo.
    I due uomini fanno accorrere sul posto l'agente Neil, che chiama il dottor Llewellyn. Quest'ultimo conferma che la morte della donna è avvenuta solo pochi minuti prima, e ritiene di non avere dubbi sul fatto che sia morta proprio lì. Il suo cadavere viene identificato prima da una collega di una casa di lavoro, e successivamente dal marito.
    Al momento della morte, indossava:
    cuffietta di paglia nera guarnita di velluto nero
    soprabito rosso-mattone
    abito marrone (è possibile che questo faccia parte della refurtiva rubata ai Cowdry, dal momento che appare nuovo)
    stoffa per il torace di flanella bianca
    calze di lana nera a coste
    sottoveste di lana grigia
    sottoveste di flanella
    tasche di flanella
    stivali da uomo con la punta di ferro
    Inoltre, aveva con sé:
    pettine
    fazzoletto da tasca bianco
    frammento di specchio

    Descrizione del cadavere
    Il corpo è stato ritrovato sdraiato supino sul pavimento, in prossimità del muro. Le gonne erano sollevate quasi all'altezza dello stomaco. Da come la descrive l'agente Neil:
    « Polly [...] aveva il volto rivolto ad est; la sua mano sinistra toccava il cancello; la sua cuffia [...] giaceva vicino alla sua mano destra; le sue gonne erano raccolte fin sopra alle ginocchia; la sua gola era tagliata profondamente; i suoi occhi erano spalancati e vitrei; i tagli della gola sanguinavano; le sue braccia erano tiepide dai gomiti in su; le mani erano aperte. Il cancello [...] conduceva in una sorta di stalle; erano chiuse. »
    Secondo quanto riportato dal The Times dell'epoca:
    « Mancavano cinque denti, e vi era una leggera lacerazione alla lingua. C'era una contusione che andava dalla parte inferiore della mascella al lato destro del viso. Quello avrebbe potuto essere causato da un pugno o dalla pressione di un pollice. C'era un livido circolare sul lato sinistro del viso che avrebbe potuto essere inflitto, anch'esso, dalla pressione delle dita. Sul lato sinistro del collo, a circa 2,5 cm al di sotto della mascella, vi era un'incisione di circa 10 cm di lunghezza, che cominciava dal punto immediatamente al di sotto dell'orecchio. Dallo stesso lato, ma due centimetri sotto [...], si riscontrava un'incisione circolare, che finiva in un punto situato all'incirca 8 cm al di sotto della mascella destra. Quella incisione recide completamente tutti i tessuti fino alle vertebre. I tagli devono essere stati causati da un coltello a lama lunga, moderatamente affilato, e impiegato con grande violenza. Non vi era traccia di sangue sul seno, né sul corpo o i vestiti. Non vi erano ingiurie nel corpo fino a quasi la parte inferiore dell'addome. A sei cm dal fianco sinistro vi era un taglio che lo attraversava in maniera frastagliata. La ferita era molto profonda, e i tessuti erano stati tagliati. Vi erano molte incisioni che attraversavano l'addome. C'erano altri tre o quattro tagli simili che andavano verso il basso, sul lato destro, tutti causati da un coltello che era stato usato violentemente e verso il basso. Le ferite andavano da sinistra a destra e si sospetta che possano essere state compiute da una persona mancina. Tutte le ferite sono state causate dallo stesso strumento. »
    Polly fu sepolta giovedì 6 settembre 1888 nel , in una tomba pubblica. Hanno partecipato al funerale (e ne hanno pagato le spese) il padre Edward Walker, l'ex-marito William Nichols, e il figlio maggiore Edward John Nichols.
    Nel 1996, il City of London Cemetery il cimitero dove è sepolta Polly pose una placca commemorativa sulla sua tomba, dove si legge:

    QUI GIACCIONO I RESTI DI
    MARY ANN NICHOLS
    DI 42 ANNI
    SEPPELLITA IL 6 SETTEMBRE 1888
    VITTIMA DI"JACK LO SQUARTATORE

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    La guerra anglo-zanzibariana

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    La guerra anglo-zanzibariana fu combattuta fra l'Impero Britannico e Zanzibar il 27 agosto 1896. Con una durata di soli 45 minuti, è la più breve guerra documentata della storia.
    Negli ultimi decenni del XIX secolo, l'isola di Zanzibar era oggetto di contesa fra le potenze coloniali dell'Impero britannico e dell'Impero tedesco. Gli inglesi avevano una posizione predominante, e nel 1890 ottennero che Zanzibar diventasse un protettorato britannico e l'impegno tedesco di non interferenza. Il sultano Hamad bin Thuwaini, in carica dal 1893, era controllato direttamente dalle autorità coloniali britanniche.
    Alla morte di Thuwaini, il 25 agosto 1896, appoggiato (seppure non in modo troppo esplicito) dai tedeschi, il nipote Khalid bin Bargash prese il potere con un colpo di stato. Gli inglesi, che sostenevano un altro candidato (Hamud bin Muhammed) ordinarono a Bargash di abdicare dandogli come ultimatum le ore 9 del 27 agosto.
    Bargash rifiutò l'imposizione inglese, e raccolse un esercito composto da circa 2.800 uomini, un vecchio panfilo armato del sultano, l'H.H.S. Glasgow, e un vecchio cannone di bronzo che non sparava dal 1658. Mentre le truppe di Bargash si preparavano per fortificare e difendere il palazzo, la Royal Navy inglese radunava cinque navi da guerra e cominciava a inviare reparti da sbarco dei Royal Marines.
    Nonostante un tentativo del sultano per negoziare la pace con gli inglesi attraverso il rappresentante degli Stati Uniti a Zanzibar, le navi della Royal Navy aprirono il fuoco contro il palazzo la mattina del 27 agosto poco dopo le 9. Il cannoneggiamento durò 45 minuti (36 secondo alcune fonti), durante i quali il Glasgow fu affondato e il palazzo del sultano devastato. Il sultano si arrese, dopo aver chiesto e ottenuto asilo politico presso il consolato tedesco.
    Dopo questa sconfitta, Bargash visse in esilio a Dar es Salaam (allora capoluogo dell'Africa Orientale Tedesca) fino al 1916, anno in cui fu catturato dagli inglesi e costretto a trasferirsi a Mombasa, in Kenya, dove morì nel 1925.
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    Le sanguinarie milizie di Duvalier, i tonton macoute, potevano accusare chiunque di essere comunista oppure oppositore del governo, o di avere qualche debito da saldare o di essere loupe-garoup (uomo lupo); se si era presi di mira, finiva sempre nello stesso modo, bruciati vivi per strada oppure uccisi a rivoltellate, senza che nessuno muovesse un dito.
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    Il massacro di un tonton macoute dopo la caduta del regime.
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    François Duvalier (1907–1971) noto con il nome di Papa Doc, fu presidente di Haiti dal 1957 e successivamente dittatore dal 1964 fino alla sua morte.

    Nato e cresciuto a Port-au-Prince da una famiglia di martinicani, studiò da medico, facendo pratica nelle campagne. Nel 1939 sposò Simone Ovide e nel 1946 divenne direttore generale del servizio sanitario nazionale. Nel 1949 fu nominato ministro sia della sanità che del lavoro. Dopo essersi opposto ad un colpo di stato di Paul Magloire, fu obbligato a nascondersi fino alla proclamazione di un'amnistia nel 1956.

    Nel 1957, probabilmente appoggiato dall’esercito, Duvalier vinse le elezioni haitiane; fece una campagna elettorale di stampo populista, attaccando l’élite mulatta al potere. Duvalier rinnovò la tradizione del vodoo e successivamente la usò per consolidare il suo potere, affermando di essere egli stesso un hougan, ovvero un mago nero. Per essere ancora più persuasivo, Duvalier imitò deliberatamente l’immagine di Baron Samedi, la divinità voodoo che attende e guida i morti nel loro viaggio verso l’aldilà: spesso compariva in pubblico nelle sembianze del dio, con un cappello a cilindro e una marsina neri, occhiali scuri, e un sigaro in bocca. Il popolo di Haiti, o almeno una parte di questo, si convinse che fosse Baron Samedi in persona, e ciò aumentò il terrore nei suoi confronti.

    Dopo essere sopravvissuto ad un attacco nel corso del 1958, ripulì completamente l'esercito. Riscrisse la Costituzione e nel 1961 vinse nuovamente le elezioni: i conteggi ufficiali furono di 1 milione e 320 mila voti a favore di Duvalier e nessuno contrario. Si autoproclamò presidente a vita nel 1964 e il suo ruolo diventò più brutale e repressivo. Nel 1959, per proteggere il suo potere al di fuori della capitale, creò una milizia, la MVSN Milizia dei Volontari della Sicurezza Nazionale, successivamente nota come Tonton Macoutes. Siccome non ricevevano alcuno stipendio, traevano i loro mezzi di sussistenza attraverso il crimine e l'estorsione. Va qui ricordato che una buona parte dei circa 6.000 prigioneri evasi dalle carceri crollate in seguito al recente terremoto sono proprio ex Tonton Macoutes incarcerati dopo la fuga di Jean Claude Duvalier, figlio di Papa Doc, nel 1986. Essi non hanno esitato a rimettere in pratica i metodi usati quando erano al servizio del regime, per saccheggiare e depredare approfittando della tragedia che si è verificata.

    Duvalier entrò sotto pressione durante la presidenza americana di John F. Kennedy a causa della sua lampante corruzione sugli aiuti ricevuti. Gli aiuti furono ufficialmente sospesi nel 1962, ma la pressione cessò dopo la morte di Kennedy. Il paese assunse il manto di una presenza anti-comunista per bilanciare la vicina Cuba.

    Verso la metà degli anni sessanta fu chiaro che Duvalier non aveva nessuna intenzione di ritirarsi e nel giugno 1964 si autoproclamò presidente a vita ed iniziò a creare un culto della personalità intorno all'immagine di se stesso come emblema fisico della nazione haitiana. Come altri suoi predecessori, Duvalier fu sospettato di aver cercato di diventare imperatore di Haiti e di trasformare la nazione in una monarchia.

    Nel suo paese, Duvalier utilizzò sia l'assassinio, sia l'espulsione per sopprimere i propri avversari politici; si stima che le persone assassinate siano più di 30 mila. Attacchi a Duvalier da parte dei militari furono trattati con particolare durezza; nel 1967 l'esplosione di alcune bombe nei pressi del palazzo presidenziale ebbe come conseguenza l'esecuzione di venti ufficiali della Guardia Presidenziale. Duvalier sapeva come seminare il terrore tra i suoi sudditi basandosi sulla violenza, ma anche sul terrore e la superstizione, attraverso l'uso distorto della cultura vodoo alla sua elezione infatti, Duvalier assunse le insegne di alto sacerdote e formò la polizia segreta la Milice de Volontaires de la Sécurité Nationale (MVSN), o Milizia dei Volontari della Sicurezza Nazionale anche nota come Tonton Macoutes (spauracchi, uomini neri) che godevano della doppia immagine di stregoni e poliziotti.
    Dopo la caduta di Duvalier nel 1986 la MVSN fu sciolta. Alcuni dei suoi componenti si nascosero dietro i sommovimenti politici che caratterizzarono la travagliata storia di Haiti fino al 2000.
    Il nome Tonton Macoute (letteralmente "zio Sacco di juta") trae origine dalla mitologia creola haitiana. Era il nome di un uomo nero che percorreva le strade al calare delle tenebre, rapendo i bambini che restavano fuori casa troppo a lungo e che infilava nel suo sacco di juta, non lasciando più che di essi si sapesse nulla. Quanti parlavano contro Duvalier, infatti, sparivano di notte e di essi non si trovava più alcuna traccia. Chiunque parlava della Milizia dei Volontari della Sicurezza Nazionale rischiava di essere rapito e da tutto ciò derivò il nomignolo di Tonton Macoutes.

    Il culto della personalità del Presidente Duvalier era arrivata a tal punto da far circolare migliaia di volantini con l'immagine di Cristo che posava una mano sulla sua spalla con la scritta "io l'ho scelto". Papa doc incoraggiava la devozione nei suoi e loro confronti e diffondeva ad arte racconti di oppositori trasformati in zombi. Il suo regno del terrore mantenne il paese sotto le sue mani fino alla sua morte nel 1971, dopo che aveva proclamato successore il figlio diciannovenne Jean-Claude Duvalier. Nel febbraio del 1977 il presidente americano Jimmy Carter minacciò di sospendere gli aiuti internazionali ad Haiti se la situazione dei diritti umani non fosse migliorata.
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    23 agosto 1927: l’America condanna Sacco e Vanzetti alla sedia elettrica

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    Una sentenza scritta in anticipo e basata su testimonianze incerte e contraddittorie giustiziò Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, immigrati italiani anarchici in Massachussetts. Nel 1977 furono totalmente riabilitati dal Governatore Michael Dukakis, che riconobbe il terribile errore dei giurati

    Il 23 agosto 1927, mezzora dopo la mezzanotte, le luci del penitenziario di Charlestown, presso Dedham nello stato del Massachussetts, si affievolirono, come sempre accade quando la sedia elettrica assorbe la maggior parte della corrente disponibile. Su quelle sedie erano seduti Ferdinando Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, due emigrati italiani di 36 e 39 anni, giustiziati perché ritenuti colpevoli di una rapina finita in omicidio. Per la precisione, Sacco fu il primo a cadere fulminato, diciannove minuti dopo la mezzanotte. Poi, fu la volta di Vanzetti, a distanza di sette minuti.

    Fra le tante condanne a morte perpetrate in America, quella di Sacco e Vanzetti, convinti anarchici, forse fu una delle più scandalose e criminali, frutto del clima avvelenato persistente, in quel periodo, contro i “radicals”, considerati tutti pericolosi comunisti.

    La rapina finita in omicidio

    Il 20 aprile 1920, a South Bountree, nei sobborghi di Boston, due banditi rapinarono le paghe di un calzaturificio, sparando e uccidendo il cassiere e una guardia giurata. Soltanto cinque mesi prima, un’altra rapina – senza feriti o morti – a Bridgewater era fallita. La macchina utilizzata dai rapinatori viene ritrovata in un luogo non troppo distante da dove si riuniscono alcuni anarchici, fra i quali preponderante è la presenza di italiani. Subito si scatena una violenta campagna contro i “radicali” che starebbero infestando l’America, diffondendo idee politiche in grado di destrutturare la democrazia in quel Paese. L’America, negli anni immediatamente successivi alla presa del potere dei bolscevichi in Russia (ottobre 1917), ha il terrore del contagio, tanto che cinque Stati americani, fra 1919 e 1920, ripristinano la pena di morte nella loro legislazione.

    Le retate di anarchici

    Similmente a quanto succederà in Italia, nel dicembre del 1969 dopo la bomba a piazza Fontana a Milano, polizia e magistratura americani non sanno fare di meglio che arrestare tutti gli anarchici che incontrano, sul presupposto che l’ondata di violenti rapine in atto siano attribuibili a loro. E così, il 5 maggio 1920, Sacco viene arrestato su un tram insieme all’amico Vanzetti. I due sono perquisiti e i poliziotti trovano nelle loro tasche due revolver e alcuni manifestini propagandistici, che segnano il loro infausto destino.

    Storia di Nick e Bart

    Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti erano arrivati in America nel 1908, come milioni di altri connazionali. Sacco era originario di Torremaggiore (Foggia); la sua famiglia produceva olio extravergine e vino. Nel 1912 si era sposato con Rosina ed ebbe due figli, Dante e Ines. Vanzetti era nato in una piccola città piemontese, Villafalletto, a 20 chilometri a nord di Cuneo. Il padre era un modesto proprietario terriero e gestiva una caffetteria. Le loro condizioni economiche avrebbero consentito a Vanzetti di non cercare fortuna in America ma la morte della madre lo colpì a tal punto da decidere di cambiare vita in un altro continente.

    Sacco trovò lavoro in una fabbrica di scarpe, mentre Vanzetti trovò diverse occupazioni, prima di mettersi in proprio e fare il pescivendolo. Sia l’uno che l’altro ben presto si ritrovarono insieme nella lotta politica per migliorare le condizioni dei salariati in un’America dove stava calando come una mannaia la grande crisi e le condizioni delle classi meno abbienti si facevano ogni giorno più misere. Nelle lettere che scriveva al padre, e alle quali si ispirò Joan Baetz per la sua celebre ballata, Vanzetti deplorava la terribile condizione in cui versavano gli immigrati italiani, le discriminazioni nei loro confronti, i lavori pesanti cui erano costretti. Sia lui, sia Nick erano fervidi sostenitori del socialismo. Vanzetti faceva parte del gruppo anarchico “Cronaca sovversiva”, fondato nel 1917 da un altro italiano, Luigi Galleani. Per sfuggire alla leva (gli Usa partecipano in quegli anni alla I guerra mondiale), Vanzetti si rifugiò in Messico, dove conobbe Sacco di cui diventò intimo amico. Tornati in America, i due amici continuarono la loro militanza, organizzando manifestazioni e distribuendo materiale di propaganda. Ma proprio in quegli anni, il democratico Woodrow Wilson scatenò una pesante repressione contro i “rossi” ed è in questo clima che Nick e Bart vennero arrestati con un’accusa che faceva acqua da tutte le parti.

    Una condanna scritta in anticipo

    Nick e Bart sono arrestati e accusati della rapina al calzaturificio; soltanto qualche settimana dopo sono accusati anche di aver compiuto la rapina a Bridgewater, nonostante il fatto che Beltrando Brini, un altro immigrato che lavorava con il carrettino di Vanzetti, testimoniasse che il giorno della rapina, nella stessa ora, entrambi stessero facendo il solito giro per vendere le loro anguille.

    A testimoniare il clima in cui si svolsero i giudizi, il giudice Trayer, che doveva guidare la giuria nel processo contro Vanzetti per la rapina a Bridgewater, dichiarò che gli italiani erano tutti dei bastardi e i rossi e gli anarchici delle carogne. La testimonianza di Brini e di altri venti italiani in favore di Vanzetti furono addirittura derise, perché gli immigrati non conoscevano bene l’inglese. Molti di loro rischiarono l’arresto per falsa testimonianza ed accusati di ripetere una versione imparata a memoria. L’unico testimone cui la giuria diede credito fu un americano che disse di riconoscere in Vanzetti l’uomo che guidava l’auto dei rapinatori. A nulla valse la dimostrazione che l’accusato non aveva mai, in vita sua, guidato un’automobile. Vanzetti fu condannato al massimo della pena (15 anni).

    Lo stesso giudice Tryer viene chiamato anche a guidare il dibattimento per la seconda rapina, dove ci sono stati due morti. Egli vuole candidarsi alla carica di Governatore del Massachussetts ed Bartolomeo Vanzetti
    ha tutto l’interesse ad incrementare l’avversione degli americani verso gli immigrati italiani. Fu così che vennero ignorate – anche per colpa di un interprete che sovente falsificò addirittura le dichiarazioni degli italiani presenti al processo – le testimonianze di alcune persone che almeno avrebbero potuto indurre nel dubbio la giuria popolare. Una di queste, contro la quale i banditi avevano sparato senza colpirla, non riconobbe nei due italiani i rapinatori. Un impiegato del consolato italiano di Boston testimoniò che, al momento del delitto, Sacco si trovava nel suo ufficio. Una perizia balistica, inoltre, escluse che le pallottole utilizzate nella rapina potessero essere state sparate dalla pistola di Sacco. Il verdetto era stato però già scritto in anticipo. Il giudice Tryler disse: «Se anche non sono colpevoli, vanno condannati lo stesso perché sono nemici delle istituzioni americane».

    Un caso internazionale

    Al pari del caso Dreyfus, che convogliò l’interesse di intellettuali come Emile Zola (nel 1894, l’ufficiale ebreo-alsaziano dell’esercito francese fu accusato ingiustamente di essere una spia al soldo dei tedeschi), anche quello di Sacco e Vanzetti ebbe una grande eco. Giornali americani ed europei raccontarono le vicende del processo, evidenziandone le contraddizioni e i dubbi. Si schierarono a favore dei condannati intellettuali e scrittori come Dorothy Parker, Edna St. Vincent Millay, Bertrand Russell, John Dewey, George Bernard Shaw, John Dos Passos, Upton Sinclair, H.G. Wells. Ma tutte le domande di grazia furono respinte e Nick e Bart furono le vittime sacrificali dell’intolleranza politica di quegli anni.

    Tuttavia, nel 2005 il “Los Angeles Times” ha pubblicato una lettera dello scrittore “liberal” Upton Sinclair al suo avvocato John Beardsley in cui asseriva che «ho sostenuto per anni l' innocenza di Sacco e Vanzetti, pur essendo stato informato personalmente dal loro legale, Fred Moore, che erano entrambi colpevoli». Ma per Kurt Vonnecut, scrittore socialista di origini tedesche, le postume asserzioni di Sinclair dovevano essere interpretate come il «tentativo di riscrivere la storia secondo i canoni revisionisti dell' era Bush, tesi a trasformare i buoni in cattivi e viceversa». Ciò che è sicuro è che, nel 1977, il Governatore del Massachussetts Michael Dukakis dichiarò innocenti i due italiani, riconoscendo gli errori commessi dalla giuria. Una riabilitazione che non cancellerà mai il misfatto compiuto dagli americani anche se restituisce l’onore a due vittime innocenti.
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    Theda Bara, nome d'arte di Theodosia Burr Goodman, (Cincinnati, 29 luglio 1885 – Los Angeles, 7 aprile 1955) è stata un'attrice statunitense, prima "vamp" o "donna fatale" del cinema.

    Dopo aver esordito in parti secondarie, viene lanciata dal produttore William Fox nel melodramma A Fool There Was (1915), con lo pseudonimo di Theda Bara, anagramma di "Arab Death" ("morte araba" in inglese). I produttori le modellano addosso l'immagine di donna perversa e tentatrice, pubblicizzandola con foto che la ritraggono con intriganti abiti egizi, e in cui è attorniata da ragnatele e serpenti.

    Per il pubblico americano è ormai la "vamp", nome che deriva da Vampire (ossia vampiro), e che sta ad indicare il tipo di donna dissoluta e tentatrice che si diverte a rendere gli uomini suoi schiavi, sbarazzandosene una volta che si è conquistata la loro devozione. The Vampire è anche il titolo di una novella di Rudyard Kipling dalla quale viene tratto appunto il primo film di cui Theda Bara è protagonista.

    Negli anni dieci ella diventa celebre per le sue interpretazioni, dal gusto eccessivo ma certo di grande effetto, di eroine come Salomè, Cleopatra, Carmen e altre femme fatale, è inoltre una delle attrici ad aver interpretato nei film in bianco e nero la zingara Esmeralda, personaggio del capolavoro di Victor Hugo Notre Dame de Paris.

    Nel decennio seguente il personaggio della "vamp" passa di moda per far spazio a quello della "maschietta" simbolo dell' "età del jazz". Così nel 1926 Theda Bara si ritira a vita privata insieme al marito, il regista Charles Brabin sposato nel 1921, un matrimonio che durò fino al 1955, anno di morte dell'attrice.
    Si spegne all'età di sessantanove anni per cancro allo stomaco.

    Premi e riconoscimenti
    Per il suo contributo all'industria cinematografica, le venne assegnata una stella sulla Hollywood Walk of Fame al 6307 di Hollywood Blvd.

    Filmografia
    The Stain, regia di Frank Powell (1914)
    Siren of Hell, regia di Raoul Walsh (1915)
    La vampira (A Fool There Was), regia di Frank Powell (1915)
    Kreutzer Sonata, regia di Herbert Brenon (1915)
    The Clemenceau Case, regia di Herbert Brenon (1915)
    The Devil's Daughter , regia di Frank Powell (1915)
    Lady Audley's Secret, regia di Marshall Farnum (1915)
    The Two Orphans, regia di Herbert Brenon (1915)
    Sin, regia di Herbert Brenon (1915)
    Carmen, regia di Raoul Walsh (1915)
    The Galley Slave, regia di J. Gordon Edwards (1915)
    Destruction, regia di Will S. Davis (1915)
    Il serpente (The Serpent), regia di Raoul Walsh (1916)
    Gold and the Woman, regia di James Vincent (1916)
    The Eternal Sappho, regia di Bertram Bracken (1916)
    East Lynne, regia di Bertram Bracken (1916)
    Under Two Flags, regia di J. Gordon Edwards (1916)
    Her Double Life, regia di J. Gordon Edwards (1916)
    Romeo and Juliet, regia di J. Gordon Edwards (1916)
    Il pirata dell'amore (The Vixen), regia di J. Gordon Edwards (1916)
    The Darling of Paris, regia di J. Gordon Edwards (1917)
    The Tiger Woman, regia di George Bellamy e J. Gordon Edwards (1917)
    Her Greatest Love, regia di J. Gordon Edwards (1917)
    Heart and Soul regia di J. Gordon Edwards (1917)
    Camille, regia di J. Gordon Edwards (1917)
    Cleopatra, regia di J. Gordon Edwards (1917)
    Rosa di sangue (The Rose of Blood), regia di J. Gordon Edwards (1917)
    Madame du Barry, regia di J. Gordon Edwards (1917)
    The Forbidden Path, regia di J. Gordon Edwards (1918)
    The Soul of Buddha, regia di J. Gordon Edwards (1918)
    Under the Yoke, regia di J. Gordon Edwards (1918)
    Salomè, regia di J. Gordon Edwards (1918)
    When a Woman Sins, regia di J. Gordon Edwards (1918)
    The She Devil, regia di J. Gordon Edwards (1918)
    The Light, regia di J. Gordon Edwards (1919)
    When Men Desire, regia di J. Gordon Edwards (1919)
    The Siren's Song, regia di J. Gordon Edwards (1919)
    A Woman There Was, regia di J. Gordon Edwards (1919)
    Kathleen Mavourneen, regia di Charles Brabin (1919)
    La Belle Russe, regia di Charles Brabin (1919)
    The Lure of Ambition, regia di Edmund Lawrence (1919)
    The Prince of Silence (1921)
    The Unchastened Woman, regia di James Young (1925)
    Madame Mystery, regia di Richard Wallace e Stan Laurel - cortometraggio (1926)
    A 45 minuti da Hollywood (45 Minutes from Hollywood), regia di Fred Guiol - cortometraggio (1926)

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    La Venere Ottentotta - Saartjie Bartman

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    Il 9 agosto 2002, in occasione della giornata sudafricana della donna, si tennero a Città del Capo i funerali solenni di Saartjie Bartman, cui furono riservati tutti gli onori di un capo di Stato. Saartije morì 187 anni prima, anche se solo nel maggio 2002 è stato riportato in patria ciò che resta di lei; uno scheletro e due flaconi di formalina, l'uno contenente il cervello, l'altro organi femminili. Per quasi due secoli questi resti erano stati esposti al Museo dell'Uomo di Parigi, dopo che nel dicembre 1815 il celebre Georges Cuvier aveva eseguito l'autopsia della donna che durante la sua vita fu nota come la "Venere ottentotta", su cui da allora sono stati scritti più di 50 volumi. Apparteneva al popolo dei Khosan, i più antichi umani stabilitisi in Africa australe, che i primi invasori europei chiamarono ottentotti o boscimani. Fu assunta come serva dai Bartman, coltivatori olandesi vicino a Capetown, che le dettero il nome Saartjie ("piccola Sara", pronunciato Sarkey) Bartman. Il fratello del padrone propose di portarla in tournée in Europa promettendole la metà degli incassi dei biglietti pagati per vederla. Saartjie era alta un metro e 35 cm, ed era chiamata la "Venere ottentotta" perché considerata particolarmente bella tra le donne del suo popolo e perché aveva molto sviluppate le caratteristiche fisiche per cui da tanti secoli si favoleggiava sulle donne boscimane: natiche prominentissime e rialzate (i boscimani trattengono l'adipe in sovrappiù non sull'addome, ma sulle natiche) e piccole labbra altrettanto sviluppate (tanto che sporgevano dall'inguine di 8-10 cm verso il basso), chiamate il "grembiule ottentotto". Nello spettacolo della tournée, Saartjie appariva legata alla catena (nuda ma con la vagina coperta) e camminava a quattro zampe in modo da mettere in risalto il suo deretano e sottolineare la natura "animalesca" che allora veniva attribuita alla sensualità. Lei comunque affermò sempre di farlo di sua volontà, per guadagnare denaro. A Londra Saartjie si sposò con un uomo delle Indie occidentali ed ebbe due figli: dunque aveva una sua vita, anche mentre veniva esposta come un fenomeno da circo. Dopo un soggiorno inglese di tre anni e mezzo, passò a Parigi dove un addestratore di animali la esibì per 15 mesi, propagandandone le natiche e le piccole labbra ("somiglianti ai bargigli dei tacchini" era scritto nei dépliants). Posò nuda per ritratti "scientifici" al Jardin du Roi, fu esaminata da tutti i più importanti scienziati dell'epoca, tra cui George Cuvier, ma si ammalò e, invece di diventare ricca in Sudafrica come doveva aver sognato, morì in Europa di una malattia infiammatoria, nel dicembre 1815. Cuvier le fece l'autopsia e asportò il pube che fece conservare e poi esporre al Musée de l'Homme al Palais de Chaillot. Solo quest'anno il Parlamento francese ha infine approvato una legge perché i resti fossero restituiti al Sudafrica. Saartjie fu il caso più famoso di ottentotta portata in tournée, ma non fu l'unico. Da secoli gli indigeni delle lontane terre "appena scoperte" venivano portati in Europa come curiosità. Ma nell'800 esplose la passione per i circhi con gli animali feroci: perché quindi non aggiungere anche degli "umani feroci"? Nacquero così gli Zoo umani. Il pioniere fu naturalmente Phineas Barnum (1810-1891), quello del Circo Barnum. E gli ottentotti furono i più esposti: per esempio, ecco a Berlino l'esposizione sui "Trogloditi africani"; mentre i "Pigmei d'Africa" furono mostrati nel 1886 alle Folies Bergères a Parigi. Si capisce perciò come mai quei poveri resti rispediti in aereo, uno scheletro e due flaconi di formaldeide, siano intrisi di storia, d'ideologia, dell'onere insopportabile del razzismo, imbevuti della "scientifica" ferocia coloniale. E perché quel poco di cervello, quel brandello di vagina abbiano ricevuto gli onori di un funerale di Stato, con salve di cannone e discorsi sull'eredità africana.
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    Lo Zeppelin (probabilmente il più famoso tra i dirigibili) è un tipo di aeronave rigida, di cui fu pioniere il Conte Ferdinand von Zeppelin all'inizio del XX secolo. I dirigibili Zeppelin erano vascelli più leggeri dell'aria, che usavano una struttura rigida, con un involucro esterno aerodinamico e all'interno diversi palloni separati chiamati 'celle' che contenevano gas idrogeno. Uno scompartimento molto più piccolo, per i passeggeri e l'equipaggio era costruito nella parte inferiore della struttura. Diversi motori a scoppio fornivano la forza di spinta. Il dirigibile di maggior successo di quel periodo fu l' LZ 127 "Graf Zeppelin" che percorse oltre un milione e mezzo di chilometri di navigazione, compresa la (attualmente unica) circumnavigazione del globo con un dirigibile.

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    L'Hindenburg leggero ed elegante sorvola i cieli di New York

    La Zeppelin chiuse intorno agli anni trenta a seguito del disastro dell'Hindenburg, nel quale l'ammiraglia della Zeppelin prese fuoco in fase di atterraggio. Ad ogni modo, durante circa 20 anni di operatività come compagnia aerea privata, fu quanto meno profittevole ed ebbe un perfetto record dal punto di vista della sicurezza fino all'incendio dell'Hindenburg. L'LZ-129 Hindenburg è stato il più grande apparecchio volante mai costruito. Era uno zeppelin tedesco e portava il nome del Presidente della Germania, Paul von Hindenburg. Aveva una struttura innovativa, interamente in alluminio: 245 m di lunghezza e 41 m di diametro, conteneva 211.890 m³ di gas divisi in 16 scomparti, con una spinta utile di 112 tonnellate, ed era spinto da quattro motori da 1100 CV (820 kW), che gli consentivano una velocità massima di 135 km/h. Poteva portare 72 passeggeri (50 nei voli transatlantici) ed aveva un equipaggio di 61 uomini. Per motivi aerodinamici, i passeggeri erano alloggiati all'interno del corpo del dirigibile, piuttosto che nelle gondole. Il rivestimento era in cotone, drogato con ossido di ferro e acetato butirrato di cellulosa impregnato con polvere d'alluminio. L'Hindenburg era stato pensato per essere riempito con elio, ma un embargo militare statunitense su questa sostanza, costrinse i tedeschi ad utilizzare l'altamente infiammabile idrogeno. Conoscendo i rischi che l'idrogeno comportava, gli ingegneri impiegarono diverse misure di sicurezza per evitare che l'idrogeno causasse incendi in caso di perdite, e trattarono il rivestimento dell'aeronave per prevenire le scintille elettriche che potevano causare il fuoco. Il 6 maggio 1937, alle 19:25, l'Hindenburg, prende fuoco e viene completamente distrutto, nel giro di un minuto, mentre cerca di attraccare al pilone di ormeggio della Stazione Aeronavale di Lakehurst nel New Jersey. Anche se il disastro è famoso, delle 97 persone a bordo, solo 35 morirono.
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    Il 1º gennaio del 1966 Bokassa esautorò l'autocratico Dacko con un audace colpo di stato ed assunse il potere come presidente della Repubblica Centroafricana e capo dell'unico partito politico legalmente ammesso, il Movimento per l'evoluzione sociale dell'Africa Nera (MESAN). Il 4 gennaio abolì la costituzione del 1959 ed iniziò a governare per decreto.
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    Nel 1972 si autoproclamò Presidente a vita e cinque anni più tardi, “Imperatore del Centrafrica, apostolo della pace e servitore di Cristo”. Sotto la sua “gestione” la Repubblica Centroafricana conobbe una delle tirannie più feroci della storia.
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    Il giorno della sua incoronazione, a Bangui (la capitale), si tenne una sfarzosa cerimonia. Uno dei paesi più poveri dell’Africa (e del mondo intero), in un solo colpo era diventato un “Impero”. Solo quell’unico spettacolo costò l’equivalente della metà del bilancio annuale di tutto lo stato (circa 20 milioni di dollari).
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    Bokassa amava regnare e accogliere i suoi sudditi seduto su un trono di bronzo che aveva la sagoma di un’Aquila. La sua corona era tempestata da cinquemila preziosi diamanti. La moglie Caterina venne proclamata imperatrice, e suo figlio, naturalmente, principe ereditario.
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    La megalomania di Bokassa si manifestava soprattutto nelle sue improbabili e costosissime manifestazioni ispirate a Napoleone Bonaparte, per il quale il dittatore africano aveva una venerazione assoluta.
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    E questo accadeva mentre il Paese continuava a patire gli stenti e la fame. Come leader Bokassa fu sempre molto presente e determinato a conservare il potere. Egli si occupava personalmente di giudicare i dissidenti, e a volte prendeva direttamente parte alle esecuzioni degli stessi. Manteneva il controllo assoluto sui più importanti dicasteri e si preoccupava costantemente di mettere a tacere ciascun individuo che potesse ostacolare il suo cammino.
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    Nel mentre il dittatore continuava a dilapidare per le sue esigenze personali anche i prestiti stranieri che venivano erogati per aiutare la popolazione sconvolta dalla siccità e dalle gravi carestie che ciclicamente si presentavano.
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    La preoccupazione maggiore del Governo francese (che in quanto paese colonizzatore aveva una forte influenza politica sul paese africano), però fu (nonostante fosse a conoscenza della drammatica situazione), quella di continuare a sostenere Bokassa perché questo gli permetteva di sfruttare con tranquillità (e ai danni della popolazione locale) gli enormi giacimenti di Uranio di Bakouma e le riserve di caccia grossa presenti nel Sudan.
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    La parabola di Jean Bedel Bokassa conobbe il suo epilogo il 21 settembre 1979, quando, mentre il dittatore era in viaggio in Libia, venne deposto dall’ex presidente Dacko (cugino dell’imperatore, del quale era stato spodestato a sua volta tredici anni prima), che approfittò dell’assenza del dittatore per assumere tutti i poteri e proclamare la repubblica. Bokassa, avendo compreso che ormai era inviso a tutti i suoi “sudditi”, decise di rimanere in “esilio forzato”.
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    Dacko però non era popolare nel paese e nel 1981 il potere venne assunto dal generale Kolingba, che era anche capo dell’esercito.
    Bokassa, certo del fatto che Kolingba (essendo un militare e suo ex sottoposto) lo avrebbe sicuramente favorito, quello stesso anno fece immediato ritorno in patria. Ma le cose non andarono come lui stesso aveva sperato e previsto. Bokassa venne processato e dichiarato colpevole di alto tradimento, di assassinio e addirittura di cannibalismo. Durante il dibattimento infatti venne accusato - dalle testimonianze dirette del suo cuoco personale a di alti dignitari del suo governo - di essersi cibato della carne dei suoi oppositori (di cui si disse amava conservare la testa nel frigorifero). Il verdetto della giuria che giudicò i suoi tredici anni di dittatura fu quello della condanna a morte, che venne in seguito tramutata in carcere a vita. Jean Bedel Bokassa morì nel 1996 nel più completo e totale anonimato.
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    I fatti di Watts


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    I fatti di Watts indicano una sommossa a sfondo razziale di imponente portata durata per 6 giorni nell'agosto 1965. I centri maggiormente colpiti furono Watts (un distretto di Los Angeles) e i sobborghi contigui, anch'essi interessati da continui disordini multietnici.
    Alla fine della sommossa si conteggiano 34 morti, 1.032 feriti e 3.952 arresti.

    La storia venne riportata alla ribalta circa trent'anni dopo, quando a Los Angeles scoppia un'altra rivolta anch'essa causata per motivi razziali. Si trattò infatti di una delle rivolte più crude e violente della storia degli Stati Uniti d'America, superata solo da quella di Los Angeles per numero di danni.
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